HIKIKOMORI E LA VISIONE SISTEMICA
HIKIKOMORI E LA VISIONE SISTEMICA

Il fenomeno dell’Hikikomori nasce in Giappone negli anni ’80, quando improvvisamente e apparentemente senza un motivo, sempre più giovani adulti decidevano di rifugiarsi nelle proprie camere eludendo qualunque forma di interazione sociale. Tale fenomeno, che inizialmente fu sottovalutato, acquisì una rilevanza scientifica nel 1998 con la pubblicazione del libro di Tamaki Saito intitolato “Ritiro sociale: adolescenza senza fine” (M. Crepaldi, 2019).

Da quel momento in poi studiosi di tutto il mondo hanno cominciato a studiarne le caratteristiche e le cause spesso riconducibili alla pressione familiare e sociale (De Michele, 2013), nonché a caratteristiche individuali. Erroneamente anche la dipendenza da internet viene identificata come una delle cause; in realtà essa rappresenta una possibile conseguenza del ritiro sociale. Oltre che in Giappone, paese di “origine” del fenomeno, la diffusione del ritiro sociale è molto presente anche nella nostra di società, quella occidentale. Nel 2003, sono stati stabiliti i criteri minimi per rientrare all’interno della sindrome di hikikomori (Ito J, Yoshida M, Kobayashi K, et al, 2003) ossia la reclusione in casa e la mancata partecipazione ad attività sociali quotidiane per una durata di almeno sei mesi. Un focus importante è da fare sull’influenza dell’organizzazione familiare nelle quali questi individui sono inseriti. Molto spesso sono i genitori stessi a portare alla luce queste problematiche e sono sempre loro a ritrovarsi ad affrontare per primi i comportamenti atipici dei loro figli. Inizialmente, questi si ritrovano ad accettare un comportamento che si pensi sia passeggero, e che solo successivamente, con il tempo e cronicizzandosi, si traduce in un completo e definitivo ritiro dalla società.

È necessario anche considerare il rapporto genitori-figli al fine di individuare quella che potrebbe essere una delle cause. Un tipo di rapporto iperprotettivo sembrerebbe facilitare il fenomeno dato che va a diminuire gli stimoli esterni. Questo porterebbe a un modello comportamentale disfunzionale che non permetterebbe al ragazzo di competere e affrontare le problematiche quotidiane in maniera sicura e fiduciosa e ciò si ripercuoterebbe poi sulle attività inerenti al mondo del lavoro o accademico (Takeo Doi,2011). È errato, ipoteticamente, presumere la totale assenza di interazioni sociali in questi individui, ma è più corretto affermare che essi rifiutino le interazioni reali a causa della loro incapacità a destreggiarsi con comportamenti verbali e non verbali all’interno di interazioni sociali in un contesto fisico e reale. E ciò può portarli a prediligere una forma neutra e sicura come un’interfaccia digitale, che mascherando le incertezze e le insicurezze della persona, ne permette una totale e anonima espressione (Toshihiko Nagata, Hisashi Yamada, Alan R. Teo, Chiho Yoshimura, Takenori Nakajima and Irene van Vliet,2013).

Al di là della sua caratterizzazione sintomatologica e della sua sempre più ampia diffusione, quello dell’Hikikomori costituisce tutt’oggi un fenomeno estremamente eterogeneo, campo di incontro e scontro tra letture ed interpretazioni assai diverse fra loro. In particolar modo, uno dei nodi principali risulta essere la sua classificazione all’interno della letteratura psicologica. Molti autori inquadrano l’Hikikomori come sindrome culturale internalizzante, dunque espressione di un malessere psicosociale generalizzato di cui il soggetto è portatore. Ciò nonostante, la posizione più diffusa ad oggi è quella che si impegna a distinguere due tipologie di ritiro sociale, riassumibili nel concetto di Hikikomori primario e di Hikikomori secondario, riferendosi in ogni caso ad essi come collocabili nell’ambito delle psicopatologie. Con l’espressione “Hikikomori primario” si intende quella condizione di ritiro che non presenta comorbidità e/o che non può meglio essere descritta in psicopatologie già presenti nel DSM o nell’ICD. Con l’espressione “hikikomori secondario”, invece, si intende quel ritiro sociale che presenta comorbidità con altre patologie/sindromi/condizioni psichiatriche o psicopatologiche, come ad esempio disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi ossessivi-compulsivi, disturbi del controllo degli impulsi, disturbi correlati all’uso di sostanze.

Sembra evidente, tuttavia, l’intrinseca difficoltà valutativa di tali condizioni, che è sicuramente resa più complessa dal fatto che, soprattutto nei casi più estremi, il ritiro può di per sé contribuire allo sviluppo di sintomi psicopatologici associati e/o conseguenti, in altre parole, se essi possano essere designati come presupposti e precursori oppure come conseguenze del ritiro stesso. Estremamente significativo per una lettura più complessa di questo fenomeno, risulta l’aprirsi finalmente a fattori altri, come quelli familiari, relazionali in senso più ampio, evolutivi e psicologici.

LONTANE E REALTÀ VICINE: HIKIKOMORI E CONTESTO FAMILIARE
GIAPPONESE

Quando parliamo del fenomeno degli hikikomori non possiamo non considerare la struttura familiare, nello specifico giapponese, nel quale quest’ultimo prende vita. A differenza di quanto si possa pensare, la famiglia dell’hikikomori giapponese è generalmente normo costituita; difatti, problematiche interne come divorzi, violenze domestiche o separazioni, sono spesso assenti e occultate. Questo accade soprattutto per un forte senso del rispetto nei confronti della famiglia e non è raro che un giovane continui a vivere nel nucleo familiare anche superata la soglia dei trent’anni.

Nella società giapponese, i ruoli familiari sono caratterizzati da una certa fissità: il padre è colui che supporta economicamente la famiglia tramite un lavoro che lo allontana da casa per la maggior parte del tempo, rendendolo quindi una figura prevalentemente marginale. Nonostante egli sia completamente risucchiato dai compiti lavorativi, la sua figura e la sua influenza sono tutt’altro che indifferenti: infatti, il padre diviene un esempio da raggiungere, sebbene spesso fuori portata del figlio, che raccoglie l’eredità familiare e che ha il compito di diventare il futuro capofamiglia. La madre è, invece, colei che si carica di tutti gli altri compiti, rappresentando in questa configurazione familiare il pilastro portante, nonché l’emblema di un forte senso di attaccamento familiare e amore filiale. Esso, infatti, oltre ad essere un precetto tipico della cultura confuciana, è incarnato all’interno del concetto di “amae”, termine coniato dallo psicoanalista giapponese Takeo Doi (1991), che sta ad indicare il rapporto simbiotico che si viene a creare tra la madre e il suo bambino.

L’atteggiamento iperprotettivo e di totale dedizione della madre nei confronti del figlio, porta quest’ultimo a sentimenti di obbligo verso la propria famiglia, compromettendone di fatto la separazione dal nido familiare e la sua indipendenza. Da questo punto di vista, la società giapponese si basa su un modello caratterizzato dall’interdipendenza tra i suoi membri. Nonostante l’“amae” venga considerato un legame positivo insito nel naturale sviluppo dell’individuo, secondo Saitō, esso rappresenta anche una delle cause principali delle ansie degli hikikomori. L’eccesso di preoccupazione sociale e autocritica, insito nella cultura giapponese, può generare un senso di inadeguatezza nelle situazioni sociali che, a sua volta, potrebbe portare all’evitamento delle relazioni

“Potrebbe essere plausibile pensare che i ragazzi che entrano in hikikomori si rifugino anch’essi in un mondo senza emozioni esattamente come i padri rinchiusi nella loro alienazione, ma c’è una diversità sostanziale […]: quei giovani — contrariamente ai loro padri — stanno probabilmente cercando di ritrovare quel mondo perduto di emozioni, stanno forse tentando di ascoltare, quel corpo saggio che è di sua natura sovversivo e lo vuole intenzionalmente dimostrare, producendo sintomi ribelli.” (Sheper-Hughes, 2000).

HIKIKOMORI E CONTESTO FAMILIARE ITALIANO

Nonostante il Giappone costituisca uno dei paesi in cui la pressione sociale risulta essere maggiore, tanto da condizionare l’intera esperienza di vita di un individuo, anche in Italia tale pressione risulta essere particolarmente presente seppur con le dovute differenze. Tra le principali cause che favoriscono la crescita del fenomeno ritroviamo: il forte calo delle nascite che sta attraversando il nostro paese (che determina maggiori nuclei familiari con una crescente stretta sul “figlio unico”), l’allontanamento dalle classiche ideologiche cattoliche-religiose ed infine la grande crisi economica che ha reso sempre più difficile l’accesso dei giovani nel mondo del lavoro e la conseguente separazione dal nucleo familiare. Dal punto di vista dell’influenza genitoriale si enfatizza l’investimento, spesso idealizzante, sul progetto di vita del figlio.

Le attenzioni reiterate in tal senso scivolano nella costruzione di aspettative molto alte e spesso irrealistiche, che il giovane adulto non si sente in grado di soddisfare. Lo stile genitoriale, caratterizzato da una sensazione d’ansia nel commettere errori ed una propensione a spianare la strada del figlio in modo che non trovi particolari ostacoli nel proprio processo di crescita, si tramuta talvolta in un atteggiamento invadente e iperprotettivo che ottiene l’effetto esattamente opposto rispetto a quello desiderato. In Italia, a differenza del Giappone, si osserva una prevalenza del fenomeno in famiglie monoparentali o comunque dove ci sono casi di separazione e divorzi.

La mamma dell’hikikomori italiano è una mamma generalmente iperprotettiva, molto emotiva e molto presente nell’educazione del figlio. Per questo motivo spesso sono le prime ad accorgersi del suo disagio, leggendo nella sintomatologia mostrata una problematica relazionale, in particolar modo con la scuola, primo luogo che subisce il ritiro del ragazzo. È frequente che esse manifestino proprio per questo un profondo malessere e un grande senso di colpa, in quanto senza strumenti adeguati a individuare la strategia migliore per aiutare il figlio.

D’altro canto, i padri degli hikikomori non sono padri assenti, come quelli tipicamente giapponesi. Essi sono al contrario molto presenti nell’educazione del figlio, sempre pronti a dare il loro contributo ed estremamente orgogliosi di ciò che riuscivano a fare i loro figli. Hanno seguito i loro figli con attenzione, credendo fortemente nelle loro scelte. Essi solitamente descrivono le madri come troppo affettive e troppo impaurite. Ciò nonostante, il loro posizionamento è ambiguo, in quanto tendenzialmente presentano all’esterno un’immagine di grande forza e, invece, internamente conservano una grande fragilità. Inizialmente tendono a negare il problema e a sottovalutarlo e per questo sono spesso i primi che si confrontano con le reazioni violente e di rabbia dei loro figli.

Da questa analisi sulle famiglie degli hikikomori sembra di fondamentale importanza adottare una prospettiva sistemica, affinché il disagio sperimentato da questi ragazzi non venga inquadrato come esclusivo problema del singolo, ma lo si consideri in un’ottica più ampia, che abbracci anche la comprensione delle disarmonie familiari sottostanti.

SITOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

  • Crepaldi, M. (2019). Hikikomori: i giovani che non escono di casa. Hikikomori,
  • Ito J, Yoshida M, Kobayashi K, et al. Report of investigation into the actual condition among consultations about social withdrawal (hikikomori). (2003)
    Guideline from the Ministry of Health and Labor (in Japanese)
  • Takeo Doi.(2011) The anatomy of dependence; Kodansha International; distributed by Arper & Row, New York
  • Toshihiko Nagata, Hisashi Yamada, Alan R. Teo, Chiho Yoshimura, Takenori Nakajima and Irene van Vliet. (2013): Comorbid social withdrawal (hikikomori) in
    outpatients with social anxiety disorder: Clinical characteristics and treatment response in a case series, International Journal of Social Psychiatry.

I tirocinanti in Psicologia del Centro Studi Kairos, coordinati dal Dott. Valerio Pannone, Psicologo

Dott. Luca Cacciapuoti dott. in Psicologia e tirocinante del Centro Studi Kairos

Dott.ssa Marica Gallo dott. in Psicologia e tirocinante del Centro Studi Kairos

Dott.ssa Roberta Maglia dott. in Psicologia e tirocinante del Centro Studi Kairos

Dott.ssa Nadia Montuori dott. in Psicologia e tirocinante del Centro Studi Kairos