Acting out
Acting out

L’acting out: le parole non dette
Una prospettiva sistemica

Il termine acting out, letteralmente “passaggio all’atto”, indica un insieme di azioni aggressive e impulsive utilizzate dall’individuo per manifestare vissuti conflittuali difficilmente esprimibili attraverso la parola e comunicati attraverso l’agito. In pratica, il soggetto che mette in atto questo comportamento lo esprime in maniera poco riflessiva: l’azione segue immediatamente l’impulso senza, in alcun modo, prendere in considerazione le possibili conseguenze del gesto.

Spesso è un atteggiamento tipico della fase adolescenziale. In questa particolare fase evolutiva, caratterizzata da continui cambiamenti, l’individuo ha una scarsa capacità di contenere le angosce relative al processo di individuazione-separazione, perdendo il controllo e sfociando in comportamenti aggressivi.

Il self-cutting o “tagliarsi”, in particolare, è una delle forme più comuni tra gli adolescenti di Autolesionismo non suicidario (NNSI). Tale comportamento è stato inserito tra i disturbi psichiatrici nel DSM-V nel 2013, indicando “danno autoinflitto intenzionale alla superficie del proprio corpo che può indurre sanguinamento, lividi o dolore (ad es. taglio, bruciore, pugnalate, colpi, sfregamento eccessivo), con l’aspettativa che la lesione porterà solo a danni fisici minori o moderati” (APA, 2013).

Nello specifico il “cutting” consiste nel tagliare o incidere la superficie della propria pelle, soprattutto di gambe e braccia, con lamette, coltelli affilati, temperini, punte di vetro, lattine usate, o quant’altro (SPI). Può trattarsi di un singolo episodio o diventare abituale.

L’esordio di solito si verifica durante la prima adolescenza, tra i 12 e i 14 anni, con un picco intorno ai 15 o 16 anni di età. In alcuni casi le ferite e i tagli provocano sentimenti di vergogna e colpa e vengono accuratamente nascosti con polsini o bracciali; in altri casi ci si lascia “scoprire” e il taglio rappresenta una richiesta di essere “visti” e comunicare un disagio.

Secondo Varela e Cohen (1989), è importante considerare il corpo come un intreccio di dimensioni: la sua costituzione, il suo ritmo e la tempistica biologica. Queste componenti rientrano all’interno della relazione con l’immagine di sé nel contesto di espressioni generato dall’identità sociale e narrativa. Significati contraddittori possono essere confusi in questo intreccio e il risultato è che il disagio è registrato nel corpo. Il self-cutting è un esempio di tali dinamiche, ma anche altri fenomeni corporei possono essere considerati da questa prospettiva.

L’adolescenza è un periodo critico dove la ricerca della propria identità, il forte desiderio di novità, l’emotività altalenante e la bassa capacità di autocontrollo rappresentano elementi di vulnerabilità verso la messa in atto di comportamenti a rischio. Numerosi sono gli studi presenti in letteratura che evidenziano una forte associazione tra il comportamento autolesionista e la disregolazione emotiva. Tenere a bada pensieri, emozioni e azioni, protegge da una serie di disturbi psichici, aiuta ad instaurare relazioni più soddisfacenti e migliora il rendimento scolastico e lavorativo.

Per questi motivi occorre prestare attenzione a questa fase dello sviluppo in cui la capacità di autoregolazione non è ancora giunta a compimento. Per favorire la maturazione della capacità di autocontrollo bisogna modificare il modo di crescere ed educare gli adolescenti, quindi non cercare di “cambiarli” ma provare a intervenire sul contesto all’interno del quale essi vivono, agiscono e provano emozioni. All’interno di una società sempre più centrata sul tempo libero e sulla realizzazione dei propri desideri, l’esagerata e incongruente attenzione emotiva finisce col produrre effetti di sovra-stimolazione e di confusione psicologica. I ragazzi hanno bisogno di vivere le proprie esperienze ed emozioni attraverso tempi di riflessione interiore, hanno bisogno cioè di metabolizzare i vissuti interni.

Serve tempo per gestire le emozioni negative senza farsi schiacciare da esse o senza reagire impulsivamente, ma serve tempo anche per apprezzare le emozioni positive e far sì che esse diventino un’energia che migliori l’autostima e aprano qualitativamente al rapporto con gli altri. Spesso, oggi, manca questo tempo di riflessione interiore sulle proprie emozioni, in quanto si è bombardati da stimoli di ogni tipo, perciò è importante valutare il contesto in cui gli adolescenti crescono e sottolinearne le contraddizioni che portano al disagio (Steinberg, 2014). In quest’ottica, il cutting sembra essere una strategia di regolazione delle emozioni, un tentativo di contenere una sofferenza psicologica che non si riesce ad esprimere diversamente.

Più il cutting è grave e diffuso a tutto il corpo, più la psicopatologia sottostante è complessa e suggerisce vari gradi di compromissione del processo, specifico dell’adolescenza, di integrazione del nuovo corpo sessuato (SPI). Nell’ambito del cutting, il corpo può essere negato, odiato e sottoposto a scissione, attaccato come un oggetto esterno o estraneo, sino ad agire veri e propri tentativi di suicidio, anche se nella maggior parte dei casi chi attua condotte autolesioniste attraverso il cutting non vuole uccidersi. Questa forma di autolesionismo, dunque, sembra essere un tentativo di trasformare un disagio psicologico in un dolore che si traduce in una forma concreta, a livello corporeo, per dare una forma a sentimenti incontrollabili nel tentativo di conoscerli, o riempire un vuoto interno con un dolore esterno (fisico), più reale, facilmente identificabile e controllabile, dato che è autoprodotto (Rossi Monti e D’Agostino, 2009).

La famiglia può svolgere un ruolo cruciale, sia nell’insorgenza di comportamenti autolesionistici, che nella loro risoluzione. Nel corso dell’adolescenza dei figli, anche i genitori provano un senso di perdita, poiché l’infanzia, come spazio di relazione, deve essere abbandonata. L’adolescente si interroga sul contesto familiare e le trasformazioni che emergono dalla sua crescita si scontrano con l’ordine stabilito fino a quel momento. Ogni aspetto implicito della storia familiare è portato alla luce dagli adolescenti, che pongono la loro attenzione sul “non detto” e sfidano i genitori a rispondere a domande difficili: vengono spinti nella dimensione non detta della storia familiare.

In questo processo, i genitori sono implicitamente o esplicitamente chiamati a spiegare capitoli sensibili o sacri della loro vita e sfidati a relazionarsi con parti scomode di sé. Sentimenti di rabbia e angoscia spesso provocano reazioni che interferiscono con la possibilità di cambiamento.

A volte, i genitori risolvono la situazione assumendo un atteggiamento autoritario, che lascia gli adolescenti gravemente frustrati; in altri casi, gli adolescenti non possono tollerare il mancato rispetto di valori che sono stati molto apprezzati nella storia della famiglia. In questo intenso processo emotivo, l’autolesionismo permette al corpo di prendere il sopravvento quando le parole sono indicibili (Le Breton, 2012). L’autolesionismo fa sì che il dolore cambi di livello e che si esprima su un piano fisico. Ciò garantisce la possibilità di trattare con un tipo di dolore visibile e limitato nel tempo.

Il dolore fisico finisce per diventare rilassante e permette una tregua nella battaglia interiore. Il Self-Cutting può essere anche inteso come un marchio impresso sul corpo, espressione della lotta per mantenere i confini di un’identità messa continuamente in discussione dall’ alterità. Si tratta di un’espressione incarnata della tensione tra il detto e il non detto, perché nell’esperienza dell’adolescente non c’è altro luogo in cui elaborare i limiti sia della sua identità che delle relazioni familiari. In altre parole, ciò che viene messo a tacere dall’autolesionismo è connesso all’impensato e al non detto che assedia la continuità del significato e minaccia aspetti preziosi della vita familiare. Quello che l’adolescente silenzia con l’atto del tagliarsi fa parte di un corpo di significati che i genitori non possono facilmente affrontare, dato che mette in crisi la stabilità dei rapporti familiari. Rompere il silenzio, infatti, può essere visto come una sfida alla storia della famiglia. Poiché il non detto non appartiene solo all’ adolescente autolesionista, ma è connesso all’intera storia familiare, l’intervento terapeutico deve considerare la famiglia nella sua interezza e nella sua complessità.

La terapia familiare può fornire uno spazio per lavorare congiuntamente con i genitori per approfondire e capire il significato di ciò che non viene detto. All’inizio, potrebbe essere difficile per l’adolescente dare un nome alle sue paure di fronte ai propri familiari e il terapeuta può proporre ipotesi per collegare il taglio con la storia familiare. Inoltre, visto che gli adolescenti coinvolti nell’autolesionismo di solito mostrano grandi difficoltà nell’espressione delle emozioni “negative” (paura, vergogna, dolore), il terapeuta può sviluppare strategie per incoraggiare questo processo. Sembra inoltre opportuno regolare la tempistica della conversazione quando l’adolescente impara ad acquisire fiducia nelle proprie emozioni e inizia a sentirsi pronto ad esprimerle in terapia.

In conclusione, l’acting out è solo una delle tante modalità attraverso cui un ragazzo può, in maniera inconscia, esprimere un disagio, che cela una richiesta implicita di essere visto, riconosciuto ed ascoltato. Risulta evidente come questa richiesta emerga in un contesto relazionale confuso, in cui sono presenti difficoltà comunicative all’interno della famiglia; proprio per questo, il contesto familiare può rivelarsi un’importante risorsa per la costruzione di uno spazio dove poter condividere difficoltà che, se non viste o non espresse, possono sfociare in sintomatologie più gravi.

BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

I tirocinanti in Psicologia del Centro Studi Kairos, coordinati dal Dott. Valerio Pannone, Psicologo

Dott.ssa Alessia Amoroso

Dott. Stefano Amoroso

Dott.ssa Maria Betteghella

Dott.ssa Raffaella Del Vasto

Dott. Flavio Di Palma

Dott. Eduardo Esposito

Dott. Gabriele Iovine

Dott.ssa Francesca La Ragione